Distanziamento innaturale

di Stefania Franco

Le misure di distanziamento sociale messe in atto per il contenimento della pandemia hanno avuto conseguenze anche sul piano della salute mentale, con un aumento dei sintomi ansiosi e depressivi

 

Soli, tristi e ansiosi

In concomitanza con l’inizio della pandemia da COVID-19 è stato registrato a partire da marzo 2021 un aumento nel consumo di psicofarmaci, in particolare ansiolitici. A due anni di distanza dall’esordio della pandemia è stato rilevato anche un significativo aumento dei disturbi dell’umore, specialmente in alcune categorie (persone con pregressi problemi di salute mentale, donne di età compresa tra i 30 e i 40 anni e adolescenti). 

Un recente studio dell’Istituto San Raffaele ha inoltre messo in luce un possibile legame tra l’infezione da COVID-19 e l’insorgenza, nei mesi successivi, di sintomi depressivi che si ipotizza siano provocati da un persistente stato infiammatorio causato dalla risposta immunitaria alla malattia

L’aumento dei disturbi da ansia e depressione, tuttavia, non riguarda solo la popolazione che ha contratto l’infezione, perciò il virus non può essere considerato l’unico responsabile. Ansia e depressione sono dunque conseguenze indirette della pandemia e in particolare si ritiene che abbiano avuto un ruolo determinante le misure di distanziamento sociale necessario al contenimento dell’infezione.

 

Perché siamo animali sociali?

Nell’Origine dell’uomo Darwin spiega il valore evolutivo della socievolezza nella specie umana ipotizzando che le possibilità di sopravvivere e riprodursi aumentino nei gruppi coesi a livello individuale e collettivo. Darwin spiega così l’evoluzione di sentimenti morali come la fedeltà e l’obbedienza che talvolta comportano alti costi per l’individuo, ma aumentano la fitness del gruppo.

L’impostazione di Darwin ha avuto una profonda influenza sullo studio della mente umana, in particolare sulla neurobiologia e sulla psicologia evolutiva. In questo solco si inserisce la teoria del cervello tripartito elaborata a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso da Paul Donald MacLean, un neuroscienziato statunitense. Secondo MacLean, il nostro cervello è strutturato in tre parti che corrispondono ad altrettanti stadi evolutivi: 

  • la parte più primordiale è il tronco dell’encefalo, che presiede ai comportamenti istintivi e ai riflessi; viene detto anche “cervello rettiliano” perché presente anche nei rettili; 

  • in un secondo momento si sarebbe sviluppato il sistema limbico, deputato a regolare le emozioni;

  • per ultima si sarebbe evoluta l’area neocorticale, che presiede alle funzioni intellettive superiori come il linguaggio e la capacità di astrazione.


Considerata la sua funzione di regolatore delle emozioni, il sistema limbico è implicato nella capacità di creare e mantenere delle relazioni con i nostri conspecifici. La socievolezza, dunque, sarebbe un istinto radicato nella struttura stessa del nostro cervello e in un’area che dal punto di vista evolutivo precede il linguaggio e il ragionamento.

 

La teoria dell’attaccamento

Sempre intorno agli anni Sessanta del secolo scorso lo psicologo John Bowlby elaborava la teoria dell’attaccamento, anch’essa basata su un presupposto evolutivo. La sopravvivenza di un neonato, infatti, dipende in tutto e per tutto dalla presenza di qualcuno che soddisfi i suoi bisogni primari, perciò fin dai primi giorni di vita egli sviluppa un attaccamento nei confronti della figura che assolve alla funzione di cura. L’attaccamento è attivato dai bisogni primari (fame, sete, sonno), ma non solo. Chiunque abbia accudito bambini molto piccoli sa bene che a volte non piangono per fame o per sete, ma semplicemente perché vogliono essere rassicurati. Un esperimento condotto sui primati ha messo in luce quanto questo bisogno sia importante: alcuni cuccioli di scimmia sono stati separati dalla loro madre che è stata sostituita da un fantoccio metallico in grado di erogare latte e da un peluche. I cuccioli utilizzavano il fantoccio metallico solo per sfamarsi, ma poi si rifugiavano sempre dal peluche, un surrogato di mamma decisamente più morbido e accogliente. Questo dimostra che l’impulso all’attaccamento non dipende esclusivamente dalla necessità di soddisfare i bisogni primari, ma risponde a un’esigenza tanto ancestrale quanto essenziale per la sopravvivenza: quella di stabilire legami con i nostri simili a prescindere dal bisogno immediato.

Crescendo, infatti, impariamo a provvedere autonomamente ai nostri bisogni fondamentali, ma non per questo l’impulso a stabilire relazioni diventa meno forte: la tendenza all’attaccamento si evolve e lo fa, secondo Bowlby, ricalcando le modalità che sono state messe in atto nell’infanzia.

 

Quello che ci spinge ad agire

La teoria dell’attaccamento, che ha trovato conferme in numerosi studi condotti su diverse specie e fasce di età, ha esercitato una profonda influenza sulla psicologia evolutiva. In questo solco si inserisce la teoria dei sistemi motivazionali, che lo psichiatra italiano Giovanni Liotti ha definito come “forme di interazione favorite dall’evoluzione”. Detto altrimenti, i motivi per cui facciamo ciò che facciamo sono tanti e variano moltissimo tra i diversi individui e le culture, ma nella prospettiva della psicologia evolutiva tutti i nostri comportamenti hanno un valore adattivo e sono orientati in vista del soddisfacimento di bisogni. Nella varietà delle motivazioni, dunque, si possono riscontrare delle tendenze unniversali e innate. 

Quali sono dunque questi sistemi motivazionali? Oltre al già citato sistema dell’attaccamento gli psicologi hanno individuato un sistema dell’accudimento, che ci spinge a soccorrere gli individui più deboli o in difficoltà; c’è poi il sistema antagonista, che spinge a entrare in competizione con i nostri simili e quello cooperativo, che al contrario ci permette di unire le nostre forze per ottenere risultati che non potremmo mai raggiungere individualmente. C’è poi il sistema sessuale, essenziale per la prosecuzione della specie, la cui attivazione avviene già a livello ormonale. Lo psichiatra americano Joseph Lichtenberg individua anche un sistema esplorativo, che ci spinge a esplorare lo spazio intorno a noi e a fare nuove esperienze.

 

Quello che la tecnologia non può fare

Che l’isolamento abbia effetti devastanti sulla psiche umana è un fatto abbastanza assodato, eppure persino nelle fasi più drammatiche della pandemia, la dimensione sociale non è stata completamente soppressa, anche grazie alla tecnologia che ci ha permesso di rimanere connessi. Tuttavia, le misure messe in atto per il contenimento della pandemia hanno inibito bisogni e comportamenti talmente radicati nella nostra storia evolutiva da non poter essere completamente soddisfatti tramite i surrogati offerti dalla tecnologia.

 

Attività per la classe

Utilizza la teoria dei sistemi motivazionali per analizzare in che modo le misure di contenimento della pandemia hanno avuto ricadute psicologiche. Realizza una griglia con una colonna per ciascun sistema motivazionale e scrivi sotto gli effetti delle misure di distanziamento sociale.